L’espressione e il tono usato dal Presidente della Repubblica nelle sue comunicazioni relative al primo giro di consultazioni erano inequivocabili, gli giravano e non poco. Credo che mai nella storia della Repubblica un Presidente abbia mostrato tanta irritazione in occasioni simili. Ma cosa può aver provocato il malumore mostrato da Mattarella? Probabilmente ciò che ha colto durante i colloqui riservati, ma sicuramente ciò che ha appreso dalle dichiarazioni dei vari leader all’uscita del Quirinale e, soprattutto, quelle riportate da agenzie di stampa e organi di informazione.

Dunque, Salvini nel suo solito e stanco comizio riapre alla collaborazione con i 5 Stelle dichiarando la diponibilità del suo partito a votare immediatamente la riduzione dei parlamentari proposta dai grillini e facendo filtrare altrettanta disponibilità nei confronti di Di Maio Presidente del Consiglio.
Lo stesso Di Maio legge i 10 punti irrinunciabili del suo movimento quale base di un qualsiasi governo. Dieci punti scolpiti come quelli nelle tavole di Mosè, anche queste dettate da Colui che tutto può: la Casaleggio & Associati. Il primo dei dieci è, appunto, il taglio di 349 parlamentari, già votato in prima lettura dalla Lega e il terzo l’autonomia regionale differenziata, notoriamente un cavallo di battaglia dei presunti eredi di Alberto da Giussano.

Zingaretti pone tre punti irrinunciabili per avviare una qualsiasi trattativa di governo: abolizione totale dei due decreti sicurezza; accordo di massima, prima della formazione del governo, sulle misure della manovra economia; no alla legge della riforma sul taglio dei parlamentari come è stata scritta e votata fino ad oggi. Tre punti che sono, come dire, il minimo sindacale per non apparire come una forza politica che sostituisce semplicemente un’altra nel governo del Paese senza dare un’impronta propria all’esecutivo di cui dovrebbe far parte.

Non la devono pensare così Renzi e renziani che esprimono addirittura “sconcerto” per le condizioni che avrebbe posto Zingaretti perché mai discusse e approvate nella Direzione di due giorni fa. Ma come sarebbe a dire? Significa che il “cambio nella gestione di flussi migratori” non prevede il superamento e l’eliminazione dei decreti sicurezza 1 e 2? La “svolta delle ricette economiche e sociali, in chiave redistributiva, che apra una stagione di investimenti” non è utile prevederla chiaramente prima della formazione del Governo considerato quanto sarà impegnativa? Il taglio dei parlamentari non è necessario inserirlo in un progetto di revisione costituzionale più ampio e coerente, proprio come voleva Renzi con la riforma partorita dal suo governo?

Ma Salvini, Di Maio e Renzi a che gioco stanno giocando? E Zingaretti può acconciarsi a questo infimo tavolo delle tre carte senza preoccuparsi che il suo partito rischia la definitiva implosione? Perché sarà pur vero che un leader di partito deve mostrare freddezza e lucidità in occasioni come queste, soprattutto quando gli altri attori in campo hanno la tendenza a barare, ma il confine tra freddo e gnoccolone si corre il rischio di superarlo senza nemmeno accorgersene.

Il Presidente Mattarella era incazzato, e non ha fatto nulla per nasconderlo, perché ha capito che a più d’uno dell’interesse del Paese importa una beneamata mazza. La verità, e non occorre essere dei raffinati politologi per coglierla, è che gli interessi personali e di parte prevalgono su tutto il resto.

Salvini si è scoperto non un abile stratega ma un cialtrone talmente pieno di sé da pensare che anche una crisi di governo annunciata tra un mojito e uno spritz (vietato bere negroni!) gli avrebbe garantito ulteriori consensi per il suo delirante progetto di assumere pieni poteri. Il vistoso calo nei sondaggi gli ha consigliato un tentativo ridicolo quanto umiliante di marcia indietro.

Di Maio teme le elezioni come la peste, il suo movimento vedrebbe i consensi dimezzati se non peggio, la sua resistibile carriera politica finita. Si inventa un decalogo che è un’esaltazione tale della famigerata “politica dei due forni” che nemmeno Andreotti avrebbe saputo far meglio. Da napoletano ha fatto suo il romanissimo “Franza o Spagna, basta che se magna”.

Renzi aveva, e ha, un progetto e una strategia lucidissimi – oltre che legittimi – ed eventuali elezioni anticipate li avrebbero messi irrimediabilmente in crisi. Progetto e strategia si compiranno in un appuntamento preciso: la Leopolda a settembre. Renzi porrà sicuramente le sue condizioni per il permanere nel PD, condizioni che, non è difficile prevederlo, saranno ritenute irricevibili dall’attuale maggioranza. Sarà il viatico per la nascita di una nuova forza centrista e riformista.

Si aggiunga che in un eventuale governo giallorosso, la golden share sarà saldamente nelle sue mani visto che controlla la maggioranza dei gruppi parlamentari del PD. Mani assolutamente libere, perché ha già annunciato che comunque di questo governo né lui né le donne e gli uomini a lui più vicini faranno parte.
Su questo hanno ragione Calenda da un lato e Cacciari dall’altro. Il primo quando sostiene che oramai ci sono due PD che non possono più convivere. L’altro quando dice che il PD non è mai nato e che ora Zingaretti ha la formidabile occasione per farlo finalmente nascere.

Questa crisi di governo ci mette di fronte ad un bivio: consegnare il Paese per qualche mese o qualche anno a dei cravattari o può essere l’occasione per costruire qualcosa che rappresenti davvero una svolta.
Può essere anche giusto interloquire con i 5 Stelle, ma per costruire un progetto che guardi al futuro e non alla contingenza. Un progetto per l’Italia, le sue Regioni, i suoi Comuni.
Saremo in grado di farlo? Non è necessario, per riuscirci, un governo che tolga le castagne dal fuoco a qualcuno.

Foto in evidenza: Luigi Di Maio, Matteo Renzi, Matteo Salvini

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