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La lezione delle amministrative sulla rottamazione

Per quello che, con espressione giornalistica, viene chiamato “il popolo della sinistra”, le amministrative sono tradizionalmente l’occasione di registrare avanzamenti e mettere da parte l’analisi della sconfitta. Non così questa volta. Se il centrodestra piange, il centrosinistra certo non ride.
Il Partito Democratico viene riconfermato a Bologna, dove tuttavia la Lega ottiene un risultato impensabile fino a pochi anni fa e dove l’astensionismo cresce. A Milano vince grazie alle risibili percentuali che gli derivano dall’appoggio di una parte dell’ex-SEL e grazie all’endorsement del candidato della sinistra radicale Basilio Rizzo. A Napoli non arriva neanche al ballottaggio e a Torino e Roma perde contro il Movimento Cinque Stelle. Quest’ultima formazione è la vera vincitrice di questa tornata elettorale: schierando il volto presentabile di due donne assai poco “anti-establishment”, convince l’elettorato delle periferie, ma anche un pezzo significativo di classe media; il partito di Grillo si presenta come alternativa credibile, di governo.

Tre sono i trend apprezzabili, tracciando un fil rouge fra le città andate al voto:

1. L’emorragia di voti dal Partito Democratico che ad ogni tornata ne perdere a centinaia di migliaia.
2. La posizione di forza relativa del Partito Democratico su ogni altro schieramento, connessa all’astensione in aumento, allo smarrimento presente negli schieramenti del centro-destra e all’assenza di competitor alla sua sinistra.
3. Laddove il Partito Democratico si presenta al ballottaggio con il M5S, invece di sfondare nel centrodestra e vincere, il PD perde a causa del voto bipartisan raccolto dai pentastellati.

Le amministrative non sono necessariamente una prova sul governo. Tuttavia una riflessione su quella che lo stesso Presidente del Consiglio ha definito “la legge elettorale del sindaco d’Italia”, cioè l’Italicum, si impone. Lo stesso Premier, commentando (o almeno così viene riportato) i risultati elettorali in veste di Segretario del Partito Democratico, avrebbe dichiarato che la sconfitta sarebbe dovuta al fatto che egli non ha rottamato abbastanza.
È vero: né il Premier né il Segretario hanno rottamato abbastanza.
L’idea della “terza via” di blairiana memoria che sembra guidare l’operato del governo è infatti già vecchia di 30 anni. È stata superata da grandi intellettuali (fra gli altri: Amartya Sen, Stiglitz, Dani Rodrik, Mazzucato) che hanno dimostrato l’impossibilità della crescita economica senza intervento statale pubblico nell’economia e senza difesa dei lavoratori volta a garantire la buona salute della classe media. È stata superata da una crisi economica mondiale dalla quale l’Occidente stenta a riprendersi: l’aumento vertiginoso delle diseguaglianze di reddito e ricchezza ossessiona oggi persino il Fondo Monetario Internazionale, che pure è uno dei tre volti della Troika, ma non il dibattito pubblico italiano. Il Governo non sembra aver rottamato la Trickle Down Economics, dottrina per la quale i ricchi vanno lasciati in pace perché arricchendosi avrebbero creato benessere per il resto della società: dottrina che la storia ha provato essere infondata e che oggi ci viene riproposta sotto forma di alleanza con Marchionne che paga le tasse all’estero, mitizzazione della Apple che sfrutta in modo vergognoso i dipendenti nel sud-est asiatico, e abolizione delle imposte sulla rendita. A nulla vale chiedere lo zerovirgola di flessibilità in Europa se a questa concessione non corrispondono poderose misure redistributive: in mancanza di queste, l’eventuale margine viene assorbito tutto dal meccanismo recessivo ormai pluriennale nel quale l’Italia si trova avviluppata.

Non aver rottamato le politiche della terza via ha significato una scelta di campo che, benché mai esplicitata, si è rivelata perdente. La retorica dell’“Italia che ce la fa” esce severamente punita dalle urne perché troppe sono oggi le persone che invece non ce la fanno e che non si riconoscono né in Marchionne, né nella politica del tweet, né dello show perenne.

Non si è rottamato il berlusconismo: l’idea dell’uomo solo al comando, della battuta ad effetto, della spettacolarizzazione di una società che ben poco ha a che vedere con la quotidianità. Con una sostanziale differenza: Berlusconi governava con il suo consenso personale che gli derivava dalla carriera imprenditoriale e da un sistema di potere capillare per quanto legalmente borderline; consenso che ha potuto mantenere fin quando le condizioni economiche internazionali e italiane glielo hanno permesso e che ha iniziato a perdere quando queste sono venute meno.
La crisi economica, sociale, politica ha evidenziato che sono invecchiati in un colpo solo e senza appello la terza via, il berlusconismo, e anche il centrosinistra.

Quest’ultimo sì, Renzi lo ha rottamato. Si è disfatto di gufi, rosiconi, della sinistra che odia, di quella a cui si fa “ciaone”. A livello nazionale e locale nessun candidato del PD o quasi ha cercato di intercettare i voti degli ex alleati di Italia Bene Comune. Laddove per “intercettare i voti” non si intendono degli appelli retorici sulle testate dei giornali, ma un processo di convergenza programmatica, di ricucitura delle spaccature politiche e umane. Così, ai ballottaggi, spesso, i gufi stanno a casa o votano Cinque Stelle. Con poche eccezioni: la buona amministrazione di Zedda riconfermata, e il miracolo milanese della tenuta del centro-sinistra grazie alla regia di Pisapia e un elettorato tradizionalmente moderato e prevalentemente appartenente alla borghesia più o meno illuminata.

I POLI SONO TRE – Emerge ancora una volta con forza alle amministrative quanto già si andava consolidando con il voto politico del 2013: i poli sono tre (PD-Centro destra a trazione leghista-5Stelle). Con l’Italicum il PD rischia di trovarsi ad un confronto pericoloso con la destra, argomentando per il voto “repubblicano” al “meno peggio”, oppure con il Movimento Cinque Stelle, mettendo in moto il meccanismo dello scontro fra l’”establishment” e “tutti gli altri”. È un meccanismo al quale prestare la dovuta attenzione. Se ad Ottobre al referendum costituzionale vincerà il SI, grazie al combinato disposto riforma costituzionale+italicum la forza che uscirà vincente dal ballottaggio eleggerà da sola la maggioranza parlamentare (potere legislativo), il governo (potere esecutivo) e con qualche turno di votazione e pochi accordi anche potenzialmente il Presidente della Repubblica (capo del CSM, quindi potere giudiziario). Questa è la posta in gioco e queste le dinamiche che il voto sembra evidenziare.

In vista di questo scenario, non si può che concordare con l’affermazione che il Segretario del PD non abbia rottamato abbastanza. Sui territori, dove il PD dispone di forze fresche e propositive e di un capitale umano di esperienze e tradizioni, sono ancora presenti le logiche pattizie fra correnti, per le quali spesso la dirigenza viene selezionata non in base alla bravura o al cursus honorum, ma in virtù della propria obbedienza. Si persiste nell’utilizzo del meccanismo delle primarie per selezionare i candidati di ogni livello, contribuendo a generare storture fra il radicamento nella società del partito e la sua spendibilità elettorale, prediligendo la seconda al primo senza comprendere che si alimentano l’un l’altro.

Se è vero che la retorica della “santa alleanza” contro i barbari non tiene più, è anche vero che non tutto è perduto per chi desidera offrire un’alternativa di governo socialdemocratico. Oltre i politicismi e i posizionamenti esiste una domanda diffusa di giustizia sociale e di mobilitazione contro lo status quo. Se le forze antisistema vincono non è perché esse rappresentano una variabile impazzita del sistema ma perché questo è inadatto al governo di una società in profondo mutamento e in sofferenza. In questo quadro, la grande alleanza dei progressisti è ancora possibile. Si badi bene: purché sia alleanza non dei democratici (che possono essere anche di destra), ma di quei democratici che propongono misure di perequazione sociale e di difesa dei lavoratori, dei precari, dei giovani e degli sfruttati in senso ampio. Un’alleanza che parta dal basso, dagli uomini e dalle donne di buona volontà che si mettono a servizio tutti i giorni di un progetto d’Italia e di Europa che punti ad offrire un programma razionale di uscita dalla crisi. Uscita che non può che avvenire a sinistra se non si vuole consegnare il voto delle fasce sociali in sofferenza alle destre xenofobe o agli sterili populismi anticasta.

Bisogna volerlo: con un grande sforzo collettivo di rimessa al centro della politica e di un progetto di cambiamento in meglio ambizioso e senza ambiguità; senza rincorsa dei grillini sui temi dei costi della democrazia, senza rincorsa delle destre nella politica economica proposta. Ma anche senza nostalgie: la solidarietà, il mutualismo, l’organizzazione dei corpi intermedi, la lotta per l’emancipazione degli individui non sono da considerarsi vecchi arnesi inservibili ma passi avanti che servono al paese per uscire dalla spirale recessiva, nonché gli unici elementi di novità da introdurre in un panorama politico altrimenti inservibile ai cittadini.

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