Enrico Marino: Le privatizzazioni degli anni Novanta, i sincretismi di Bad Godesberg e i limiti della socialdemocrazia
La politica economica dei governi italiani degli anni novanta, anche di centro sinistra, fu caratterizzata da alcune importanti privatizzazioni nel quadro di un impianto di ispirazione neoliberista: in particolare, quelle più rilevanti avvennero nel settore del credito e, in seguito, delle telecomunicazioni, con il passaggio in mani private della Stet-Telecom. I risultati di quelle operazioni sono stati eloquenti: è difficile pensare che l’attuale esborso dello Stato, per salvare numerose banche private sul punto di fallire, caso emblematico l’ex istituto di credito pubblico Monte dei Paschi di Siena, sarebbe stato più gravoso se una parte del sistema bancario fosse rimasta in mani pubbliche, ritenute per definizione poco “produttive”. Nel breve volgere di cinque anni dal passaggio ai privati, prima nella cosiddetta forma del nocciolo duro, immediatamente dopo in quella della public company e poco più tardi, ancora con un gruppo ristretto di controllori della proprietà, la società Telecom si ritrovò sommersa dai debiti, nonostante al momento della privatizzazione fosse in buone condizioni. A quel punto, era il 2006, l’appena insediato governo Prodi dovette, in forma più o meno diretta, intervenire per contribuire a favorire una nuova acquisizione, alla quale parteciparono anche società straniere, che salvasse la società dal fallimento. In questi casi, dunque, l’esperienza prova che le politiche di privatizzazione hanno generato perdita di valore e mancati investimenti produttivi.
In un recente intervento, accennando alle scelte di quegli anni, il compagno Bersani ha sostenuto che si voleva il liberismo in economia ma non nella società: premesso che il liberismo, con la cosiddetta politica di austerità, finanziarizzazione, precarizzazione del lavoro, ha prodotto una crisi economico-sociale su scala internazionale seconda solo a quella del ‘29, nell’affermazione di Bersani vi è un evidente limite di impostazione teorica, e la frase rappresenta forse il risultato di un lapsus, dovuto alla fretta, più che il suo effettivo pensiero.
E’, infatti, evidente che i rapporti economici sono alla base di quelli sociali, irradiano il principio che li informa a tutti i rapporti socio-politici e che è irrealistico avere una economia ispirata all’individualismo liberista, e, quindi, all’accumulazione come fine in sé, e una società socialista o almeno ispirata da rapporti non fondati sul profitto, ma egualitari e cooperativi. Il capitalismo e la sua forma di scambio tendono a permeare di sé l’intera società e nel contempo producono quella che, filosoficamente, fu definita la “contraddizione oggettiva”, cioè una contraddizione materiale che porta con sé principi alternativi all’accumulazione fine a se stessa e produce una dinamica dialettica che segna i rapporti sociali, il confronto politico, la cultura. In effetti nella riflessione della sinistra italiana sembra maturare la consapevolezza che la ripresa dell’azione statale nei settori più rilevanti dell’economia, il ripristino dei diritti del lavoro e una sana politica di redistribuzione possano risolvere i guasti economico-sociali e culturali provocati dal neoliberismo: tale visione sembra inquadrarsi nella prospettiva della riproposizione di una politica socialdemocratica.
La ridefinizione della programmazione e del diretto intervento dello Stato nei maggiori settori dell’economia, nel quadro di una visione keynesiana di dimensione europea, dato che ogni programma nazionale per essere pienamente realizzabile non può che essere definito nell’ambito di mutate politiche macroeconomiche europee, è assolutamente indispensabile. Ma, a ben vedere, se questo possa basarsi su un “semplice” ritorno al riformismo è questione molto più complicata di quanto già appaia, sia per ragioni storiche, che per ragioni teoriche relative ai fondamenti del cosiddetto “compromesso socialdemocratico”. In primo luogo le politiche socialdemocratiche si erano giovate di due condizioni storiche ormai venute meno: la presenza del socialismo reale, che comunque costituiva un oggettivo stimolo alla riforma delle economie capitalistiche e la contestuale forza dello Stato-nazione. In tale quadro era maturata in Europa, nel secondo dopoguerra, la combinazione tra keynesismo e politiche di diversa matrice socialista che aveva portato alla costruzione dello Stato sociale inteso nella sua più ampia accezione. La odierna dinamica internazionale del capitale, industriale e finanziario, che limita il potere di molti Stati nazionali, e il venire meno della relazione diretta tra incremento del prodotto interno lordo e aumento dell’occupazione, la sempre più pervasiva appropriazione privatistica dei beni comuni, rendono molto più complesso l’approccio alla riforma economico-sociale. L’impianto riformista dell’SPD dopo il 1959, già limitato per quell’epoca, appare oggi inadeguato, dato che è altamente probabile che con “politiche eclettiche” permangano sacche di disoccupazione ed emarginazione, e dato che un semplice cambio di governo nazionale può rapidamente modificare il quadro interno, favorendo nuovi squilibri economici.
Alla radice della inadeguatezza del vecchio impianto riformista vi sono specifiche ragioni teoriche: il programma di Bad Godesberg del 1959, è, in effetti, in diversi punti qualificanti, tanto generico quanto eclettico e, dunque, a mio avviso, inidoneo ad affrontare i problemi della nuova fase storica. Si legge in esso che la socialdemocrazia difende ed incoraggia l’attività economica privata, purché questa sia produttiva ed avvenga secondo le regole del mercato. Alla obiezione, maturata nel dibattito tedesco dell’epoca, che cosi si promuove anche il capitalismo, si rispose che non tutte le attività private sono di tipo capitalistico, ma tale distinzione nel programma non viene esplicitata e le conseguenze “dialettiche” che ne derivano sono, quindi, oscurate. Si afferma, inoltre, che le grandi concentrazioni industriali private diventano uno strumento di dominio sull’uomo e condizionano, quando non sono in grado di piegare a sé, l’azione dello Stato: in tale contesto l’impresa e la programmazione pubblica sono necessarie per riequilibrare il potere dell’impresa privata, ma si aggiunge che anche quella piccola e media, senza distinzione tra cooperativismo e impresa di profitto, svolgono la funzione economica e politica di riequilibrio della forza dei grandi gruppi finanziari e industriali privati. Storicamente talvolta, al contrario, la media impresa è stata la sede nella quale più facilmente si è attaccato il diritto del lavoro e si è affermato il liberismo della competizione illimitata, dove lo sfruttamento e l’alienazione spesso sono stati altrettanto intensi che nella grande industria. La lotta di classe, che talvolta la sinistra tedesca ha praticato più che adeguatamente teorizzato, ha consentito di realizzare la cosiddetta codeterminazione nelle scelte industriali di rilevanti imprese e cosi di limitare le tendenze regressive del capitalismo, sebbene nel programma ne manchi una adeguata definizione.
Questo solo per enunciare alcuni temi, altri se ne potrebbero menzionare: ad esempio, il principio per cui si deve assicurare al cittadino la libera scelta del lavoro, non trova nel programma della SPD effettiva realizzazione, dato che non si indicano concrete soluzioni, nonostante si riconosca implicitamente che ampi settori produttivi finiranno per restare fondati, nel lungo periodo, sulla concentrazione della proprietà privata dei capitali. Questo insieme di sincretismi, che includono il fine della liberazione economica e sociale di ogni uomo e, nel contempo, la mancata esplicitazione delle forme di superamento delle disuguaglianze da cui ha origine la subalternità stessa, non offre sufficienti strumenti analitici e soluzioni idonee per una prospettiva di riforma nell’odierno contesto storico.
Una nuova strada per le riforme dovrebbe fondarsi, quindi, su una più solida base teorica e un più ampio respiro politico. Mi limito ad enunciare solo i titoli dei provvedimenti principali: si dovrebbero combinare la programmazione economica, entro cui definire gli obiettivi degli investimenti, l’intervento diretto dello Stato nei cosiddetti settori strategici, la riduzione dell’orario di lavoro, il reddito sociale minimo e la ricostruzione dei diritti del lavoratore, con misure in grado di stimolare la spontanea iniziativa sociale cooperativa no profit in ogni campo e la gestione partecipata dei beni comuni. Si dovrebbe favorire la costituzione di una rete di microcredito, un centro, se cosi si può dire, di macro credito no profit, che finanzi imprese di lavoro cooperativo nell’industria, le quali rispondano ad esigenze sociali, ad esempio nell’industria dei trasporti, e una rete di imprese di commercio equo e solidale. Si favorirebbe in questo modo la nascita di una economia alternativa, policentrica e diffusa: policentrica perché costituita da diversi centri, risultato di aggregazioni; diffusa perché coinvolge un alto numero di persone che diventano cosi artefici consapevoli dei meccanismi della vita economica.
La combinazione di questo complesso di provvedimenti e misure, consentirebbe il più razionale impiego delle forze produttive e la migliore rispondenza ai bisogni economici e sociali, oltre che la difesa dello stesso equilibrio biologico della natura. Soltanto tali principi di riforma sociale possono davvero porre rimedio alla povertà e all’alienazione, i terreni su cui in Europa stanno crescendo i nuovi populismi.
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Nella foto di copertina: 15 Novembre 1959, il congresso straordinario del SPD nel municipio di Bad Godesberg, quartiere urbano di Bonn.