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Perché non rientro nel Pd

Sinceramente, quello di rientrare o meno nel PD, è un dilemma che non mi sono ancora posto. La domanda, però, me la rivolgono in tanti, accompagnata dalla singolare affermazione “Enrico Rossi lo ha fatto”.
Sono legato ad Enrico da enorme stima e altrettanto affetto personale, non solo lo ho difeso ma ho pubblicamente detto che ritenevo, per lo stimolo che una personalità politica come la sua può dare, che è una delle ultime speranza di cambiare il PD. Io no, ho fatto una scelta per il momento diversa e che cercherò di spiegare. E’ chiaro, non è che i destini della sinistra e del PD in particolare dipendono dalle mie scelte e, di conseguenza, saranno giustificatissimi i me ne po’ fregà de meno che accompagneranno le mie riflessioni. Però qualcosa provo a dirla lo stesso.
Qualche giorno fa l’Argine ha pubblicato un interessantissimo articolo del mio carissimo amico e compagno Carmine Dipietrangelo. Come sempre gli capita, le cose che pensa, dice e scrive non sono mai banali e stimolano il confronto. Sostiene – e come non essere d’accordo – che non è più tempo per rinfacciarsi le responsabilità delle sconfitte e degli errori di questi anni, perché, avverte, c’è una destra da combattere e sconfiggere culturalmente e socialmente. C’è un Paese da unire e un popolo da recuperare.
Giustamente, poi, cita Roberto Speranza che nel suo ultimo intervento all’Assemblea Nazionale di Art. 1 del 13 luglio, chiede di “riconoscere una grande verità, noi tutti, la sinistra, non è all’altezza della sfida, quello che c’è non basta. Nuove e vecchie sigle sono una sommatoria di fragilità”.
Aggiungo, e anche qui sono d’accordo con Dipietrangelo, che PD, Liberi e Uguali, Art. 1, Sinistra Italiana, non solo si sono rivelate inadeguate ma sono, ed è il rischio più grande, forse inutili.

E’ quindi tempo di mettersi al lavoro per dar vita ad un progetto di una nuova forma di partito? Di un partito di sinistra che si richiami al socialismo e ai suoi valori moderni ed attuali (lavoro, uguaglianza, diritti, ambiente, lotta seria alle povertà)? Certo che sì, finalmente. Ma, temo, questo partito non potrà essere la conseguenza dell’evoluzione del PD. Io ritengo che Zingaretti sia sincero e motivato nel ritenere che “serve una vera e propria rivoluzione, altrimenti non ce la facciamo. Dobbiamo costruire un campo largo, plurale, di persone consapevoli. Un partito nuovo. Lo dico a tutte e a tutti: non aspettate che qualcosa si muova, aiutateci”. Sta tutto in queste parole, in questo auspicio, ciò che ancora mi divide da Carmine, Enrico e tanti altri cari compagni ed amici: io credo che il PD per le regole e per le componenti che ha al suo interno (non le chiamo volutamente correnti, perché non voglio dare una connotazione necessariamente negativa) sia immodificabile.

Il PD non è un partito modificabile dall’interno, è un partito contendibile senza un’identità propria, riconoscibile, oggettiva. La sua fisionomia, la sua cifra è data dai leader a qualunque livello e a qualsiasi latitudine. Prendiamo il meccanismo delle primarie. Partecipano e gareggiano esponenti dello stesso partito per la candidatura a sindaco, piuttosto che a presidente della regione o a segretario (comunale, provinciale, regionale o nazionale). Ognuno di essi ha e presenta una propria visione della società o della comunità che vuole dirigere o governare, a volte anche diametralmente opposta rispetto a quella degli altri competiror. Non vi sono quasi mai dei principi comuni, un programma chiaro e condiviso di cui il leader sarà la migliore espressione possibile. In tal modo avremo sempre e comunque un partito degli eletti e, accanto ad esso, il rischio dell’autoreferenzialità, “di un ceto politico chiuso in se stesso e percepito come distante e impegnato solo per autoconservarsi nei passaggi elettorali”, sarà non solo sempre presente, ma inevitabile.

Certo, un partito degli eletti non è cosa di per sé scandalosa. Esiste già ed è quello dei Democratici americani; alcuni di coloro che hanno annunciato l’intenzione di sfidarsi nelle prossime primarie (molto, ma molto diverse da quelle de’ noantri) hanno proposte e programmi davvero innovativi nonché condivisibili. Però lo si dica. So benissimo che nessuno tra Zingaretti, Rossi e Dipietrangelo ha in mente quel modello (e Carmine indica chiaramente il suo nell’articolo citato). Capisco altrettanto bene che lo stesso Zingaretti ha necessità di muoversi con cautela (che non è debolezza) nel rivoltare come un calzino il suo partito pena la pressoché certezza di trovarsi gruppi parlamentari ridotti a meno della metà, ma è – ribadisco – la prospettiva che non (ancora) mi convince. E la prospettiva, dal mio personalissimo punto di vista, non è un nuovo PD, ma un partito completamente nuovo che sia l’esito di una Costituente della sinistra. So benissimo che c’è chi è votato alla testimonianza e fuori di essa si sente come un pesce all’aria aperta. So benissimo che far convivere liberismo riformista (che per me è comunque un ossimoro) con la cultura cristiano sociale e liberalsocialista è arduo, ma occorre chiarezza. Perché il rischio non è solo quello di non essere capaci di costruire un’alternativa credibile a destra e populisti, ma nel frattempo ci si copre di ridicolo. In quale altro partito, ad esempio, succede che singoli parlamentari presentino una mozione di sfiducia nei confronti di un singolo ministro in palese e plateale contrapposizione al proprio gruppo dirigente?
Spero che queste mie riflessioni siano di stimolo ad altre e che – ed è ciò che auspico – qualcuno magari le confutasse.
Sono certo, invece, che con Carmine ed Enrico ci ritroveremo presto, e non solo a cena, per ricominciare a condividere un percorso che non è stato abbandonato ma solo momentaneamente interrotto.
Dove non lo so. Non ho certezze e non so nemmeno se quello che ho appena scritto è giusto.

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