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Quale democrazia, quale partito?

L’avida lettura di tutti i romanzi di Andrea Camilleri e Antonio Manzini, mi deve aver trasmesso qualcosa dei loro commissari, Montalbano e Schiavone. Ho ascoltato gli interventi all’ultima assemblea nazionale del PD in uno stato emotivo particolare. Ero irritato sia dall’intervento di Giachetti, pur condivisibile nel merito ma assolutamente fuori luogo nella forma, sia dall’insopportabile ticchettio della penna di Orfini allo scadere degli incomprensibili e inconcepibili 5 minuti per intervenire su temi particolarmente complessi quali lo stato del PD, soprattutto dopo l’esito referendario del 4 dicembre. Eppure, ho avvertito la sensazione che mi fosse sfuggito qualcosa di importante se non addirittura fondamentale per il futuro di questo partito. La sensazione, appunto, che leggevo cogliere spesso i due commissari; un particolare tutt’altro che insignificante per il positivo esito delle loro indagini. Rasserenato, mi sono costretto a riascoltarli e, in effetti, mi era sfuggito non un semplice particolare ma una affermazione rivoluzionaria e decisiva rispetto non solo al futuro dal PD, ma del Paese e dell’Europa. In un diluvio di interventi inutili, tutti incentrati sul “tiranno”, sul passato, e su quali potessero essere gli eventuali ticket di candidati alternativi, un candidato che ha scelto la difficile ed impegnativa corsa solitaria, ha posto una domanda ed una questione: quale idea di democrazia il PD intende proporre.


Nella foto: La sede del Pd

Non quindi, o meglio, non solo quale idea di partito, di società, ma di democrazia. Ne dibattono da tempo filosofi e scienziati della politica, per Bauman è diventata una propria e vera ossessione, ma sembra che par la maggior parte dei nostri politici (dico “maggior parte” perché dire che l’unico a porsi e a porre la questione è stato Enrico Rossi, sembrerebbe atto di eccessiva partigianeria) il problema non esiste. Esiste ed è anche enorme.

La democrazia così come conosciuta e vissuta fino ad ora, di fatto, non esiste più. Quel compromesso tra lavoro e capitale , welfare e diritti in cambio della inviolabilità della libera iniziativa, che dal dopoguerra ha retto e fatto prosperare i popoli d’Europa e non solo, è al collasso, è tenuta in vita artificialmente per assenza di alternative. E tutto ciò non per programmi politico-economici sbagliati, ma perché gli Stati hanno progressivamente esternalizzato le proprie funzioni cedendole ai mercati, impolitici per definizione. Oramai gli standard della nostra vita quotidiana dipendono dai movimenti dei capitali finanziari internazionali. E’ il trionfo del “pensiero unico” neoliberista. Un pensiero per il quale, si può rinunciare tranquillamente ad una fetta di mercato di oltre 10 milioni di persone, tanti sono all’incirca gli italiani che vivono sotto la soglia di povertà o appena sopra. Anzi, per gli speculatori finanziari la prospettiva che gli Stati possano provvedervi finanziato welfare aggiuntivo con il debito, rappresenta un boccone prelibato per i loro istinti speculativi. E’ intuitivo che l’accettazione di un siffatto stato di cose, significa abdicare al concetto classico di democrazia liberale. Aggiungiamoci a questo un altro particolare, apparentemente tecnico, ma di enorme impatto politico, sociale ed economico.

Sino a non molto tempo fa, chi scrive, nulla sapeva dell’articolo 15 del protocollo di adesione della Cina al WTO, l’organizzazione mondiale del commercio. Tale articolo impediva oggettivamente alla Cina di “invadere” il mercato per 15 anni dalla sottoscrizione del protocollo stesso, grazie ad una serie di dazi protettivi. Ora a quel Paese e alla sua organizzazione produttiva, verrà riconosciuto la status di economia di mercato a tutti gli effetti. E’ il mercato, bellezza! E alle supreme leggi di mercato, quanto i diritti dei lavoratori possano incidere sui costi di produzione non gliene fotte assolutamente nulla. E se pensiamo che l’invasione cinese, il neoliberismo finanziario si possano combattere a colpi di voucher o di Job Acts, dichiariamoci subito prigionieri e si salvi chi può. Per rilanciare una nuova idea di democrazia, è necessario passare dal “compromesso” all’alleanza. Occorre tornare ad essere gramsciani e pensare ad un nuovo “blocco sociale” non più, naturalmente, tra operai del nord e contadini del sud, ma tra lavoro e capitalismo produttivo e innovativo che individui il terreno dell’agire comune contro il nemico comune: il capitalismo improduttivo, la speculazione finanziaria.

Se aggiungo che non dico nulla di nuovo rispetto a quanto già chiaramente e meglio spiegato nella “Rivoluzione socialista”, sarei facilmente e legittimamente tacciato di eccessiva partigianeria a favore di Enrico Rossi. Per fortuna c’è, ancora una volta, Antonio Gramsci a venirmi in soccorso: “credo che vivere voglia dire essere partigiani”.

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