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Romiti, la Fiat, il sindacato: la politica di allora e quella di dopo

Cesare Romiti è morto a 97 anni, a quarant’anni dalla conclusione della più dura sconfitta del sindacato della storia della Repubblica: i 35 giorni della vertenza Fiat del 1980. A quel tempo era alla guida, come amministratore delegato, del gruppo torinese degli Agnelli e quella vertenza la vinse, anche grazie alla marcia dei quarantamila (i capi e i quadri degli stabilimenti di Mirafiori e Rivalta) che mostrarono in un solo giorno tutta la debolezza e il velleitarismo della decisione sindacale di ricorrere alla lotta a oltranza e financo alla occupazione della fabbrica. Per questo è normale che l’immagine che Romiti sia quella di un “duro” del capitalismo, dell’uomo che fu in grado di battere il sindacato. Ma è davvero così? Io credo che la maggior dote di Romiti sia stata quella di un grande dirigente industriale che sapeva che per vincere bisognava soprattutto non voler stravincere.

E allora cominciamo a vedere la storia di questo fondamentale personaggio del capitalismo italiano. Romiti non era né torinese né sabaudo (che immagine stantia). Era romano, teneva alla Roma e la sua carriera l’aveva fatta nell’ industria pubblica: Iri, Alitalia, Italstat e quant’altro. Alla Fiat si trovò da posizione apicale a dover affrontare: la crisi dell’auto (non soltanto italiana), un sindacato non forte nei numeri (a Torino gli iscritti alla Flm non hanno mai superato il 30 per cento), ma particolarmente combattivo nei fatti: un alto assenteismo, condito da sacche di estremismo all’interno dei diversi consigli di fabbrica, talvolta con significativi episodi di violenza nei confronti dei capi dell’organizzazione del lavoro. Il tutto culminato nel licenziamento dei 61 violenti e successivo processo. Non erano anni facili. All’esterno della fabbrica, ma talvolta anche oltre, c’era il terrorismo delle organizzazioni eversive, tipo Br e Prima linea. Sono gli anni nei quali toccava proprio al leader della Cgil Luciano Lama andare a Torino a spiegare ai lavoratori: “I capi sono operai“. Suscitando talvolta una certa freddezza ai limiti della diffidenza anche in alcune frange del sindacato, presenti soprattutto nella Fim-Cisl.

E’ in questa cornice e in questa successione di fatti che si colloca la vertenza Fiat e il relativo blocco delle merci in entrata e in uscita deciso dalle organizzazioni sindacali. Un errore grave questa scelta fatta dal sindacato, che sopravvaluta la sua forza e non considera che la Fiat possa reagire talvolta con il sostegno di buona parte dell’opinione pubblica. Qualcuno nel sindacato e a sinistra capisce e prova a contenere gli errori. Ad una riunione del Consiglione di Mirafiori Bruno Trentin spiega come in una lotta di lunga durata sia meglio ricorrere a scioperi articolati, in grado di durare piuttosto che a iniziative a oltranza.

Eppure a Torino non tutta la sinistra e non tutto il sindacato è permeabile all’estremismo. Cesare Damiano è il giovane segretario della Fiom e Piero Fassino è il responsabile lavoro e fabbriche del Pci. Ma a Torino è il momento della lotta dura, sotto la spinta della Quinta Lega e dei delegati di base. Persino Berlinguer verrà ai cancelli della fabbrica rimettendo ogni decisione alle organizzazioni sindacali, ma aggiungendo che non mancherà il sostegno “politico e organizzativo” del maggiore partito della sinistra. Naturalmente su questo episodio non mancheranno racconti e titoli di giornali al limite della provocazione. Non è mai stato Berlinguer a proporre l’occupazione delle fabbriche.

E qui torniamo a Romiti che sarà il vero beneficiario di questi errori strategici del sindacato. Lui, e lo ha ribadito in una delle sue ultime partecipazioni a un dibattito televisivo, criticando alcune affermazioni dell’allora presidente del Consiglio Renzi, che rivendicava il “merito” di aver superato la concertazione rituale con i sindacati, ha invece sempre mantenuto aperto il confronto con le organizzazioni del lavoro. “Parlavo con loro sempre anche più volte al giorno e anche quando mi avevano occupato la fabbrica“.

Ecco perché credo che Romiti sia stato sì un duro, sì uno che ci teneva a vincere, ma al tempo stesso un uomo che aveva con sé il senso della politica e il rispetto dei suoi interlocutori: sindacati ma anche governi e partiti. Insomma uno che sapeva come anche un’azienda come la Fiat non potesse fare a meno di questa interlocuzione. Per la quale Romiti pagò un prezzo anche giudiziario nella stagione di mani pulite. Un dirigente tosto, quindi, che rispettava avversari e interlocutori. E soprattutto come ha osservato Loris Campetti, cronista del “Manifesto“, uno che la storia degli operai e quindi della Fiat la conosceva bene, uno che voleva vincere sul campo, come avvenne dell’ottobre ’80. Sempre Campetti ci ricorda che rispondendo ad una domanda poco dopo la morte dell’avvocato Agnelli, sul futuro della Fiat e Marchionne aveva osservato: “Non è una azienda italiana, non parlo di Fiat“.

Insomma: Romiti era un duro del vecchio capitalismo italiano che riuscì a battere a Mirafiori anche la radicalità operaia. Ma rispettando le regole del gioco e soprattutto mantenendo sempre integro quel filo che legava imprese, sindacati, partiti e politica. Il quale aveva consentito, per esempio, di battere non soltanto alla Fiat il terrorismo. Auguriamo ai successori nella Confindustria dell’era Bonomi, talvolta sensibili, alle sirene dell’antipolitica, di essere in grado di fare altrettanto anche dinanzi ai colpi di coda della pandemia che abbiamo attraversato.

Foto in evidenza: Cesare Romiti (rielaborazione da Il Foglio)

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