Pietro Moroni

Pietro Moroni: per far ripartire un pensiero socialista

Sono uscito dal PD per entrare in Articolo Uno la scorsa primavera, a seguito di un’analisi di fase che condivido ancora.

Partiamo dal presupposto che la sinistra in Italia è stata sconfitta. È questa la realtà degli ultimi 25 anni. Una realtà politica e sociale dalle radici forti e dalle tradizioni gloriose si è irrimediabilmente ammalata a cavallo degli anni ‘80 e ‘90. I due polmoni che ne garantivano il respiro, la presenza nella società e la forza istituzionale, ossia il PSI e il PCI, sono stati perforati rispettivamente da Mani Pulite e dalla svolta della Bolognina. Con questi due partiti è entrato in crisi, purtroppo, anche il socialismo, dalla socialdemocrazia al comunismo italiano. Le conquiste dirette e indirette di questi due partiti sono state il bersaglio successivo dei governi e degli interessi che si sono susseguiti, con questa legislatura a conquistare la palma dell’assalto finale (ancorché forse non il più importante) alla civiltà del lavoro.

Ma non si comprende la deriva del PD se non si considera Renzi come sbocco e sintomo di una crisi ventennale, in cui l’egemonia neoliberale ha avuto pochi e disorganizzati avversari. L’Italia, a differenza di buona parte dei Paesi dell’Europa Occidentale, non è stata in grado di sviluppare una risposta, né in senso di ridotta né in senso di soggetti controegemonici.

È da qui che partiamo. È da qui che, benché non ne avessi questa stessa consapevolezza, partii io stesso quando per la prima volta mi iscrissi al PD, ossia dopo le elezioni del 2013. Da allora la situazione si è solo resa più chiara, senza cambiare sostanzialmente se non nel fatto che Renzi ha, forse inconsciamente ma comunque prima di ogni altro suo pari, compreso la rivalità insanabile che intercorre oggi fra la sinistra socialdemocratica e il centro liberale e moderatamente conservatore.

Ora, prendere atto e ricominciare da una sconfitta che coinvolge almeno un’intera generazione di nostri predecessori non è facile, ma non è neanche un’impresa eroica. Non vi è nulla di eroico nel voler far ripartire un pensiero, e dunque una prassi, che si considera vitale per la resurrezione del proprio Paese. È un’aspirazione collettiva alla vita che semplicemente non si può scacciare. L’idea di portare avanti chi è nato indietro. Parlo ovviamente del socialismo.

Bene, parliamo ora della situazione del nostro Paese nel contesto europeo. L’Italia è un Paese periferico e in declino di un continente in declino. Crescita risibile che ancora non ci ha fatto recuperare i livelli pre-crisi, disoccupazione a due cifre, giovani costretti a scegliere tra precarietà e emigrazione, scarsa protezione sociale e ancor meno opportunità di ascensione sociale, nonostante le crescenti risorse accumulate dalle classi alte e medio-alte. Un sistema che funziona per i pochi, insomma, ma è così in (quasi) tutta l’Europa. Le prove che questo modello sia politicamente insostenibile sono già sotto i nostri occhi. I risultati del referendum costituzionale e delle scorse amministrative, il fallimento della Clinton contro Trump, la crescita delle destre radicali ed estreme ed il collasso dei partiti di centrosinistra moderati. Macron ne è forse il canto del cigno, mentre il PD, con tanto di uno scandaloso voto con questione di fiducia, si rassegna ad un futuro in cui la sua massima aspirazione è essere lo junior partner di una grande coalizione di centrodestra, magari sotto la guida autorevole di Tajani, presidente del Parlamento Europeo e possibile premier proposto da un Berlusconi che ha finalmente ricucito i rapporti col PPE e Angela Merkel.

All’opposto, i partiti socialdemocratici e socialisti che hanno saputo interpretare la nuova fase storica non solo sono stati premiati ma, al governo, sono riusciti anche a ottenere risultati straordinari nonostante condizioni e rapporti di forza molto peggiori di quelli d’Italia (eclatante il caso del governo Costa in Portogallo).

La capacità di questi pochi partiti di riformarsi e ingaggiare il discorso politico in maniera radicalmente diversa non deriva solo dalle loro leadership competenti, ma soprattutto dall’essere un polo attrattivo di forze ed energie. Dove invece sono le sinistre radicali, come la Linke, a essere il solo soggetto controegemonico, comunque hanno l’indubbio merito di tenere viva e dinamica una cultura politica e un’agenda potenzialmente di governo, preparando il terreno affinché i rapporti di forza o gli orizzonti ideali dei partiti limitrofi mutino a loro favore. Sono al contempo una risposta alla crisi della sinistra, all’ascesa dei partiti xenofobi e ai fallimenti del neoliberalismo.

In Italia un soggetto così c’è? Non può essere il PD, incapace di attrarre forze innovative (i Millennials a caccia di notorietà e, all’inseguimento della Lega, contro lo ius soli, ne sono solo un parossismo) e di dettare un’agenda autonoma che non sia ripresa da gruppi d’influenza eterogenei o dagli avversari grillini e leghisti. Alla rinuncia a ogni riforma di struttura economica e sociale si è oggi aggiunta una ritirata strategica anche in tema di diritti civili. La rotta della sinistra nel (per ora) maggiore partito d’Italia è irreversibile almeno nel breve e medio periodo. E non abbiamo il lusso di poter aspettare dieci anni. Dunque il soggetto va costruito.

In questi mesi ho scoperto miei coetanei e ragazze e ragazze più giovani che nel socialismo ci credono davvero. Alcuni, come me, provenivano dai GD. Altri da Sinistra Italiana. Molti altri sono alla loro prima esperienza politica formale. Ho visto vecchi compagni che si erano allontanati molto tempo fa dalla politica, parlo di vecchie tessere non solo di DS e Rifondazione, ma addirittura del PSI, prima della diaspora secondorepubblicana. Sono piccoli segnali che sbiadiscono di fronte a un’analisi di fase complessiva, ma sono comunque segnali, appunto.

L’unità delle forze di sinistra, e dunque in primo luogo di Articolo Uno e di Sinistra Italiana, sarà il primo campo di prova per capire se energie affini, fino ad oggi segregate e parcellizzate dal sistema politico della cosiddetta Seconda Repubblica, sono in grado di fare politica, in che modo e con quali limiti da superare in futuro.

Ci si muove in una realtà difficile, dopo decenni in cui si è allenato l’errore, e contro forze importanti. Vi è la necessità di ricostruire una forza politica e, con essa, una classe dirigente e un consenso sociale che possa smuovere un Paese inchiodato sulle sue ingiustizie e ostaggio di un dibattito pubblico che pur di ignorare le 2000 morti sul posto di lavoro all’anno, si esercita nel retroscenismo come esercizio narrativo. Questa necessità sia troppo grande e reale per poter essere dimenticata o affossata.

Impegnarsi, organizzare i compagni, sviluppare e far crescere una giovane classe dirigente socialista, e con essa ripensare un’agenda per il futuro e far rivivere nella società le idealità socialiste, non sono occasioni che si presentano di frequente. Oggi l’occasione c’è, coglierla è un dovere nei confronti dello stesso futuro. La fase è tale che le nostre umane inadeguatezze possono essere superate.

Nella foto di copertina: Pietro Moroni

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