referendum divorzio 1974

Gli obiettivi degli astensionisti, rinsecchire i referendum

Con la scelta del maggior partito italiano di promuovere la campagna astensionistica al referendum del 17 aprile sulle concessioni per l’estrazione e la ricerca di petrolio e gas sulle piattaforme poste entro le 12 miglia dalla costa, torna prepotentemente in campo la necessità di una riflessione sull’istituto stesso del referendum, sulla sua posizione nel nostro impianto costituzionale e istituzionale, sul suo ruolo all’interno della democrazia italiana. Un tema che fu già al centro del dibattito sul referendum per l’abrogazione delle preferenze plurime del 9 giugno 1991, quando Craxi, Bossi e altri invitarono gli italiani ad andare al mare, i quali però respinsero questo invito andando a votare SI per il 62,5% degli aventi diritto. Altri tempi, altri attori, finanche altra Repubblica, ma la questione referendum è sempre lì.
Da qui vorrei muovere per alcune considerazioni che, pur avendo una implicazione contingente sul referendum di domenica prossima, in una certa misuro lo trascende.
Sgombriamo il terreno da una prima questione: il fatto stesso che l’art.75 della Costituzione preveda un quorum per la validità del referendum (la maggioranza degli aventi diritto) rende perfettamente legittima la posizione astensionistica.
Tuttavia, un partito – per di più quello attorno cui ruota il governo stesso e che è maggioranza relativa in Parlamento – che assume la posizione di organizzare la campagna per l’astensione e cioè per invalidare il referendum, non può non farsi carico delle conseguenze di tipo politico-istituzionali di questa decisione. E tali conseguenze senz’altro sono il contributo all’essiccamento di uno strumento democratico di controllo e di indirizzo (anche se non in modo diretto) del popolo sovrano all’interno dell’impalcatura istituzionale della nostra democrazia. Tanto più se all’astensione si pretende di assegnare una funzione di espressione di una volontà politica nel merito del quesito specifico, come avviene da più parti.
Il referendum è un istituto fortemente limitato all’interno del nostro ordinamento costituzionale. L’art. 75 prevede che sia solo abrogativo; non è ammesso per leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, né per la ratifica di trattati internazionali; e, appunto, prevede un quorum per la sua validità. Intanto, per il fatto di essere solo abrogativo, esso implica sempre un conflitto fra due fondamentali organi della sovranità, quello diretto (il popolo) e quello delegato (il Parlamento).
Tuttavia, il referendum come istituto non può essere considerato un mero strumento accessorio o superfluo nel sistema democratico italiano. E non solo perché lo indice il Presidente della Repubblica (garante della Costituzione), ma anche perché troviamo questo istituto in altre parti, importanti, della Costituzione. In primo luogo all’art.138 relativo al procedimento di revisione della Costituzione, tant’è che ci apprestiamo a parteciparvi in relazione alla riforma costituzionale appena approvata in doppia lettura, ma senza la maggioranza dei due terzi dei componenti delle Camere, caso in cui non si dà luogo al referendum (altra limitazione all’istituto).
Ma poi troviamo l’istituto del referendum nell’art.123 in riferimento allo Statuto delle Regioni, il quale deve prevedere la regolamentazione dell’esercizio del diritto d’iniziativa e del referendum su leggi e provvedimenti amministrativi della Regione. In questo caso, l’istituto pur mantenendo le prerogative del referendum nazionale (si applica alle leggi approvate), non vede delimitarsi il campo, per cui sarebbero possibili, a livello regionale e anche comunale, altre forme di referendum, configurandosi piuttosto come uno strumento per esercitare il diritto d’iniziativa inteso in senso più ampio.
Vi è poi il referendum contemplato all’art.132 della Costituzione relativo alla fusione di Regioni esistenti (sarebbe, in ipotesi, il caso delle Regioni del Centro Italia, secondo il progetto in corso di elaborazione di Toscana, Umbria e Marche) o la creazione di nuove Regioni con un minimo di 1 milione di abitanti. Il procedimento è rafforzato dal fatto che ciò può avvenire solo con legge costituzionale e quando la proposta sia approvata con referendum dalla maggioranza delle popolazioni interessate.
Il referendum abrogativo dell’art.75 non può che essere concepito dentro questo quadro per quanto attiene all’istituto stesso e, più in generale, agli strumenti di rapporto fra cittadini e istituzioni democratiche.

I REFERENDUM NON SONO INUTILI – In questo senso il referendum non può essere tacciato di inutilità, se non altro perché esso cancellerebbe una legge e indicherebbe al Parlamento la volontà popolare di un diverso indirizzo in materia (anche se, come avvenuto per il referendum sull’acqua, il Parlamento ha eluso per inerzia gli indirizzi del popolo, ma questo non fa altro che dimostrare quanto meno la fragilità delle relazioni cittadini-politica).

Nella foto: L’allora Presidente del Consiglio Amintore Fanfani al seggio per votare al referendum sul divorzio del Maggio 1974. Non si astenne.

LE MIRE DI UNA CAMPAGNA ASTENSIONISTICA – Il punto è che una campagna astensionistica mira esplicitamente ad impedire che il popolo svolga il proprio ruolo di indirizzo, nelle forme che gli sono consentite dalla Costituzione, giacché tale ruolo non si esplica solo con il voto per l’elezione dei rappresentanti in Parlamento, ma anche attraverso altri strumenti – quale tipicamente è il referendum – durante il mandato del Parlamento stesso. E’ una campagna che dice al popolo di non disturbare il manovratore e, in tal senso, è rivelatrice anche del grado di legittimazione democratica del Parlamento. Infatti il referendum nella Costituzione si presenta certamente come un istituto in perenne e fisiologica dialettica con gli istituti della democrazia rappresentativa, ma non è uno strumento anti-Parlamento. A meno che le forze politiche presenti in Parlamento non lo interpretino come tale e, appunto, avendone timore, non decidano di affossarlo attraverso l’astensione e non di utilizzarlo per quello che è, un istituto attraverso il quale è possibile verificare se l’attività legislativa compiuta dal delegato sia o meno in linea con quello che il delegante pensa su quella stessa materia. Questo pare essere l’atteggiamento di quelle forze politiche che, come il PD, invitano all’astensione e non invece, avversandone i contenuti, a votare contro il referendum, se del caso.
Ma, si è detto, la complessità di problemi come quello appunto della strategia energetica del paese o il potenziale conflitto fra esigenze di tutela dell’ambiente marino e quelle di tutela di attività economiche rilevanti anche dal punto di vista lavorativo, non può essere risolta dallo schematismo di una alternativa fra e No. A questa obiezione, da un lato si può rispondere nel merito (ad esempio domandandosi quale sia l’interesse pubblico preminente) e dall’altro sul piano istituzionale dicendo che purtroppo questa è l’unica forma di appello al popolo e di indirizzo dello stesso al Parlamento previsto dalla Costituzione, ma proprio per questo si dovrebbe operare per rafforzare ed ampliare (non certo per essiccare) l’istituto referendario. Lo si sarebbe potuto fare in occasione della recente, amplissima, riforma costituzionale, sol che lo si fosse voluto; ma forse l’indirizzo complessivo di quella riforma non era esattamente quello di ampliare gli spazi e gli istituti della democrazia, diretta o meno. Sì, perché il referendum da un lato opera certamente come critica pratica della capacità di governo dei partiti su specifiche questioni, ma dall’altro costituisce anche la possibilità di ampliare tale capacità e quindi anche la democrazia, ponendo accanto al voto-delega anche il voto-decisione o il voto-indirizzo. Ma quando i partiti politici vedono soltanto la prima delle due funzioni, ciò significa che vi è un preoccupante distacco fra di essi e il popolo e che tali partiti hanno già smarrito parte di quella funzione costituzionale che l’art.49 assegna loro di essere gli strumenti attraverso i quali i cittadini concorrono con metodo democratico a determinare la politica nazionale. La campagna astensionistica non fa altro che accentuare il distacco fra la società civile e le istituzioni, alimentando un clima di reciproca sfiducia; ancor più grave perché, mentre è acclarata quella dei cittadini verso i partiti, l’astensione proclama che i partiti non si fidano più dei cittadini. E questa sfiducia prende le forme di una volontà dei partiti di svuotare, di delegittimare, di inficiare un istituto – il referendum – concepito nella Costituzione per ampliare le possibilità della democrazia.

SI RISCHIA UN VOTO MENO LIBERO – Vi è poi un altro vulnus che la campagna astensionistica apporta alla Costituzione ed esso riguarda l’art. 48, secondo il quale il voto (ogni voto, anche quello per il referendum evidentemente) è personale ed eguale, libero e segreto. Infatti, se passa l’astensione come espressione di volontà politica, il voto è meno libero e personale, giacché si annetterebbe ad una posizione politica tutto l’astensionismo, anche quello spontaneo o comunque non motivato politicamente in relazione allo specifico quesito referendario. Ma, di più, l’astensionismo trasforma la minoranza (che si è coscienti di essere, giacché altrimenti si farebbe apertamente campagna per il NO) in maggioranza sfruttando non solo l’astensionismo spontaneo, ma anche il fenomeno – ormai vastissimo – di scollamento fra cittadini e istituzioni. In pratica i partiti astensionisti vincerebbero contro un istituto di partecipazione democratica, utilizzando la gran parte dell’astensione motivata dalla sfiducia verso i partiti e le istituzioni. Mentre, il contesto civile e politico in cui viviamo, dovrebbe al contrario indurre ogni sforzo nel tentare di recuperare un rapporto, libero, consapevole e trasparente, fra politica e cittadini. Il referendum di domenica prossima, come ogni referendum in realtà, parla di questo, del rapporto fra partiti, istituzioni e cittadini, perché permette ai cittadini, nei modi previsti dalla Costituzione, di intervenire direttamente su una questione tutt’altro che marginale (tanto che, appunto, per evitare l’esito di abrogazione della legge si usa finanche lo strumento dell’astensione per invalidarlo) mediante uno degli strumenti di cittadinanza attiva di cui disponiamo e che, come diceva Bobbio, è la lezione di democrazia che viene dalla Costituzione. Chi predica l’astensione deve sapere ed essere consapevole che questo sacrificio di democrazia chiede.

Nella foto di copertina: Alla redazione dell’Unità si segue lo spoglio del voto per il referendum sul divorzio del 12 e 13 Maggio 1974. Si recarono alle urne 33.023.179 italiani, l’88% degli aventi diritto. Allora nessuno predicava l’astensione.

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