Moro_Caetani

Quel 16 marzo 1978, i 55 giorni del delitto Moro tra ricordi e qualche considerazione

Non doveva essere proprio una giornata di routine, ma io quel 16 marzo del 1976 non avevo rinunciato ad andare ad allenarmi sui campi di tennis che a quei tempi frequentavo. Certo ci sarebbe stata la presentazione del Governo Andreotti alle Camera il primo con il sostegno del Pci, e c’era anche uno sciopero dell’Ansa, ma il tempo comunque non mi sarebbe mancato nè per ascoltare il discorso del presidente del Consiglio nè per procurarmi il testo scritto. Ero allora alla Voce repubblicana e seguivo la politica interna. Comunque quella mattina a tennis non giocai.
Recandomi verso il circolo ero passato a ritirare due racchette lasciate ad accordare al solito negozio sportivo addetto all’abbisogna, e rientrato in macchina, avevo acceso la radio, apprendendo che Aldo Moro, il segretario della Dc era stato rapito, e la sua scorta di cinque uomini annientata da un attacco terrorista. A quel punto passai dal circolo a lasciare le racchette e a disdire il campo prenotato e mi precipitai al giornale. Non prima di aver incrociato all’uscita del circolo il direttore dell’Ansa Sergio Lepri che, ancora in tenuta sportiva, era salito in macchina per precipitarsi al lavoro.
Alla “Voce” trovai la centralinista che mi mise al corrente del fatto che Ugo La Malfa aveva telefonato più volte infuriato di non trovare nessuno. Qui apro una parentesi per dire che è abbastanza normale che un giornale, per lo più piccolo che si chiude la sera, alla mattina sia poco affollato. Ma di quel giornale in passato La Malfa era stato direttore quando era ancora un quotidiano del pomeriggio dove si andava a lavorare alle 6 del mattino per chiudere verso le 11.
Comunque, subito dopo di me era arrivato il direttore, al quale toccò l’ onere di affrontare l’ira del capo. Ma più che ira quella di La Malfa era sconforto e rabbia per quello che giudicava, ed era, il più drammatico attacco allo Stato e alla Repubblica. Questo sarebbe stato anche il filo del suo discorso alla Camera in quella stessa mattinata. Un discorso nel quale il leader repubblicano avrebbe evocato addirittura la pena di morte. “La vita contro la vita” per rispondere a chi voleva umiliare lo stato repubblicano.

Qui mi preme aggiungere una considerazione. Ugo La Malfa era un democratico a tutto tondo e nulla era più lontano da lui da atteggiamenti inutilmente gladiatori e forcaioli ai quali spesso in passato (ma capita anche oggi) si abbandonano le destre italiane. Ma La Malfa (con buona pace dei liberisti dei nostri giorni) aveva una considerazione alta dello Stato ed aveva un riflesso che si potrebbe definire “crispino” (nel senso di Francesco Crispi) della difesa delle prerogative dello Stato. Mio padre, che era un parlamentare del Pri all’epoca, mi raccontò che La Malfa, recatosi come altri uomini politici a esprimere la solidarietà a Zaccagnini, nella sede della Dc aveva incontrato Mario Scelba (il ministro poliziotto degli anni del centrismo) e gli aveva chiesto se fosse vero che , nei giorni dell’attentato a Togliatti, avesse ordinato alla polizia di usare le armi in caso di tentativi insurrezionali. Scelba rispose positivamente, aggiungendo di aver informato della cosa De Gasperi, al quale aveva anche detto che se questa sua iniziativa non fosse stata approvata dal presidente del Consiglio le sue dimissioni erano pronte.
Capii anche che La Malfa temesse soprattutto un cedimento dei partiti, magari della Dc più che dei comunisti, nei confronti di prevedibili richieste da parte dei terroristi delle Brigate rosse. E questa preoccupazione fu dominante nei 55 giorni che seguirono, fino al ritrovamento, il 9 maggio, del cadavere di Moro nel baule della Renault rossa.

Tornando al 16 marzo, il Governo Andreotti ebbe la fiducia delle camere in un solo giorno e passarono in secondo piano anche le riserve e le preoccupazioni del Pci su alcuni dei nomi espressione della destra dc, che Andreotti aveva messo nella lista dei ministri. Preoccupazioni, magistralmente raccontate da Giorgio Frasca Polara, in una sua appassionata ricostruzione su “Strisciarossa“.
A quel punto cominciarono ad arrivare i comunicati delle Br e soprattutto le lettere di Moro. E si delinearono anche le posizioni dei partiti: Da una parte la Dc, il Pci e i repubblicani interpretavano la linea della fermezza: nessuna trattativa con chi aveva attaccato lo Stato e ammazzato cinque suoi servitori. Dall’altra Craxi e i socialisti per i quali la priorità era quella di salvare la vita di Aldo Moro. Naturalmente la famiglia e lo stesso Moro, con le sue lettere, chiedevano che si facesse di tutto (anche la trattativa) pur di riportare a casa il leader democristiano.
Qui vorrei tuttavia aggiungere che liquidare la linea dei socialisti e di Craxi come quella del cedimento sarebbe un inutile errore e una leggerezza politica. Innanzitutto partiamo dai fatti. Il 30 marzo a Torino, mentre è in corso il processo ai capi storici delle Br, si apre il Congresso socialista. Nella sua relazione (vado a memoria e qualche imprecisione è possibile) Craxi dice che va fatto di tutto per salvare la vita di Moro, ma al tempo stesso aggiunge che nessun cedimento è possibile nei confronti “di chi ha falciato sei giovani vite sul selciato di via Fani“. Il cambio di tono e di rotta Craxi lo afferma nella replica qualche giorno dopo quando dice che “in un paese nel quale abbondano i falchi a buon mercato” tocca ancora una volta ai socialisti mettere in campo la via umanitaria per salvare Moro. In pratica: se dovesse aprirsi un possibile margine di trattativa questo non si dovrebbe lasciar cadere.
In quei giorni io ero a Torino a seguire il Congresso socialista. E credo che nelle scelte di Craxi finirono per pesare due elementi. Eleonora Moro e la famiglia si erano rivolte a Giuliano Vassalli per essere assistiti in quei tragici giorni. Vassalli, era un esponente socialista di primo piano, oltre che grande giurista. Un eroe dell’antifascismo di grande coraggio fisico. Non dimentichiamo che aveva organizzato e condotto la fuga di Sandro Pertini e Giuseppe Saragat da Regina Coeli. Certamente Craxi della vicenda aveva parlato con Vassalli anche nei giorni del Congresso di Torino. C’era poi l’aspetto politico. Non c’è dubbio che i socialisti vedessero nel peggior modo possibile un asse Zaccagnini-Berlinguer soprattutto dopo che, con il suo discorso ai gruppi parlamentari della Dc, proprio Moro poche ore prima di essere rapito aveva delineato le ragioni di una probabile lunga non belligeranza tra Dc e Pci. Qualcosa che certamente non avrebbe rafforzato il potere di coalizione dei socialisti. La linea umanitaria o della trattativa, in pratica, avrebbe portato ad una convergenza anche futura tra il Moro ora nel carcere del popolo e i socialisti che avevano fatto di tutto per farlo tornare a casa.

In 55 giorni il mio angolo di osservazione restava quello repubblicano. Durante il giorno alla “Voce” con La Malfa che mandava articoli e corsivi contro qualsiasi ipotesi di trattativa con le Br. A questo proposito ricordo un episodio divertente pur nel clima di assoluta tragicità. Sui giornali si era fatto vivo e parte diligente di una eventuale mediazione con i carcerieri l’avvocato Giannino Guiso, già difensore del bandito sardo Graziano Mesina. Una sera alla “Voce” arrivò un breve e urticante corsivo di La Malfa da pubblicare anonimo, con tanto di titolo del tipo: non è un avvocato è un brigatista”. Straordinario il commento del direttore Peppino Ciranna: “Sarò il primo direttore di giornale querelato dalle Brigate rosse“!
L’altro argomento che tenne banco in quei giorni era quello se le lettere dal carcere del popolo fossero autentiche e, quindi, rispecchiassero il pensiero e la strategia di Moro o fossero scritte in totale stato di sudditanza nei confronti dei suoi carcerieri. Era argomento soprattutto al centro degli incontri a cena, ai quali avevo il privilegio di partecipare quando raggiungevo mio padre in un ristorante al Pantheon, dove di solito teneva banco soprattutto Spadolini che in un futuro non lontano sarebbe anche diventato presidente del Consiglio.

Ora Spadolini, senatore e ministro repubblicano, aveva un’ammirazione fortissima nei confronti di Moro. Appassionato come era di storia e pratica della politica, studioso dei rapporti tra Giolitti e i cattolici anche in chiave di aperture a Turati, non poteva che essere attratto dalle sottili e complicate strategie dell’uomo politico che era riuscito a portare la Dc di Scelba e dei dorotei al centro-sinistra e all’apertura ai socialisti e dopo esplorava le impervie vie della non belligeranza con i comunisti e con Berlinguer. Ebbene, Spadolini (non so quanto ne fosse realmente convinto) negava l’autenticità delle lettere di Moro. “Non è lui“, aggiungeva con vigore. Una sera, Alberto Ronchey ebbe a replicargli: “Giovanni, ma non vedi che sta cercando le corvergenze parallele con Prospero Gallinari?” L’idea che mi sono fatto è che l’obiezione di Ronchey fosse più che fondata.

Intanto, piano piano – passando per falsi allarmi come quello del lago della Duchessa e persino per una sgangherata seduta spiritica nella quale sarebbe stato evocato il nome di Gradoli, ma nella quale i partecipanti alla riunione non capirono che il riferimento poteva essere ad una strada di Roma Nord e non a un comune del centro Italia, si arrivò all’ 8 maggio.
Una giornata che si apriva con la direzione della Dc riunita ma disorientata dall’ultimo comunicato delle Br che annunciava la conclusione del processo nel carcere del popolo “eseguendo” la sentenza di condanna a morte di Moro. Un gerundio che lasciava ancora qualche dubbio sui tempi dell’esecuzione. Nelle ultime ore si era affacciata l’ipotesi di concedere la grazia ad una brigatista malata e non responsabile dei più gravi delitti di sangue, la Besuschio, e dal Quirinale si faceva sapere che Leone era pronto “con la penna in mano“. In tal senso si stava spendendo soprattutto Fanfani. Dalla riunione della direzione della Dc non vennero segnali di novità. Arrivò invece (attorno alle 14) la notizia di una Renault rossa abbandonata in via Caetani, un luogo equidistante da piazza del Gesù e via delle Botteghe Oscure. Nel portabagagli c’era il cadavere di Moro. I 55 giorni del delitto Moro erano arrivati al capolinea. Le ultime polemiche riguardarono due funerali. Quello della famiglia nella solitudine di Turrita Tiberina. Quelli di Stato in San Giovanni con la partecipazione di Papa Paolo VI che aveva già in quei giorni drammatici rispettato e aiutato lo stato repubblicano a mantenere la sua fermezza rivolgendosi ai carcerieri di Moroin ginocchio” per chiedere però di liberare Morosenza condizioni“.

Per quanto riguarda il mio osservatorio, quello della “Voce repubblicana” non mi resta che trascrivere il titolo in rosso su tre righe dettato da Ugo La Malfa: “Moro è la prima eroica vittima di una guerra dichiarata allo Stato che i terroristi considerano terra di nessuno. Dobbiamo accettare la sfida ed agire da uomini con intransigente determinazione“.
Per quanto riguarda lo Stato repubblicano, esso riuscì a battere le Brigate rosse e il terrorismo che lo aveva attaccato e anche a superare la crisi che portò alle dimissioni di Giovanni Leone eleggendo poco tempo dopo alla presidenza della Repubblica Sandro Pertini. E di questo ne portano il merito i partiti, i sindacati i corpi intermedi che anche nei tempi più bui hanno salvaguardato bene comune e coesione sociale.

Foto in evidenza: La Renault rossa con il corpo di Aldo Moro in via Caetani

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